Il rapporto tra sport e videogame in Italia è da sempre stato interessante. Sebbene sempre più aziende sportive decidano di puntare sul settore videoludico, il tabù dell’esport che regna nel nostro Paese sembra essere più profondo anche di quello su fumetti o anime.
Uno dei problemi principali è il modo in cui l’esport viene percepito da parte dei tifosi sportivi e, di conseguenza, da parte degli italiani che vivono (volenti o nolenti) in un ambiente così influenzato, per esempio, dal pallone.
Giochi di parole
Che giocare seriamente ai videogiochi sia messo in ridicolo non è affatto una cosa sorprendente se ci si riflette: la parola stessa “esport” porta con sé il peso di un accostamento inevitabile, che innesca il bisogno di trovare (o di creare) distinzioni fra gli sport “veri” e quelli elettronici.
Nella sua forma più primitiva, la parola e-sport racchiude tutto ciò che di negativo può trasmettere. In una situazione reminescente a quella delle e-mail degli anni novanta, essa sembra suggerire non solo una sorta di presuntuoso tentativo di legittimazione (inglobando un concetto popolare e amato come quello di sport in attività apparentemente molto diverse), ma anche la possibilità che si tratti di una naturale evoluzione che renderà nel tempo il classico obsoleto. È da qui che nasce uno spesso blocco di pregiudizi e malintesi che ostruiscono la possibilità di un dialogo pacifico.
Lo stesso ambiente videoludico ha ammesso il problema e ha tentato di metterci mano. Lo dimostra la trasformazione del termine e-sport in un più semplice esport, nel tentativo di creare un genere differente e non invasivo, non più legato alle attività fisiche tradizionali.
If the AP style guide says esports, lose the capital S you heathens.
— Paul Chaloner (@PaulChaloner) March 24, 2017
A facilitare la transizione da concetto parassita a nozione a sé stante sono stati anche gli innumerevoli sponsor che, nel tempo, sono stati attratti dalle potenzialità pubblicitarie degli eventi competitivi. Essi non solo hanno fornito una buona fonte di introiti, ma hanno inequivocabilmente legittimato la scena competitiva, dimostrando di voler spendere soldi e risorse per fare appeal al suo pubblico.
Ma se le società sportive e le grandi aziende riconoscono il potenziale dei videogame, cosa spinge la persona comune a tentare delegittimarli?
La parola gioco
Forse il problema risiede nel fatto che abbiamo passato così tanto tempo a tentare di elevare alcuni sport a qualcosa di più profondo che ci siamo scordati che tutto (persino il calcio) nasce dal giocare.
Nella società italiana il concetto stesso di gioco per adulti è inaccettabile. Il videogame in mano ad un uomo o una donna è visto come qualcosa di imbarazzante e infantile, più che mai se l’interessato è deciso a farne la propria professione.
Di conseguenza, se persino uno sport come il calcio è un gioco allora tutto il tempo e tutti i soldi spesi a contribuire alla propria passione sono stati utilizzati in maniera infantile, i nostri campioni non sono più modelli da seguire e le loro vite non sono più epiche storie di successo, ma soltanto la vita di qualcuno più bravo di noi in un’attività puramente ricreativa. Lo stigma non risiederebbe quindi tanto nel videogioco competitivo per sé, ma nella parola gioco.
Il problema non sarebbe il sentire la propria quotidianità minacciata dal diverso o il sentire i propri intressi sminuiti, ma l’incapacità di accettare il fatto di avere un continuo bisogno (e diritto) di svago. La soluzione al tabù dell’esport sarebbe, banalmente, accettare il fatto che tutto ciò che amiamo dello sport sia nato sempre da un gioco, e che da un gioco possa sempre nascere lo sport.