Qualche giorno fa abbiamo parlato del caso del padre di Jordan Herzog, che ha ritirato il figlio dal liceo per permettergli di inseguire una carriera all’interno delle competitizioni videoludice. Uno caso che, seppur nuovo, rientra in quella casistica di genitori che impongono un preciso percorso di vita ai propri figli. Un argomento molto trattato anche in ambito medico che riguarda la crescita del bambino e/o ragazzo in questi contesti.
A tal proposito abbiamo chiesto l’opinione di Mauro Lucchetta, psicologo dello sport e mental coach che con il suo progetto, Psicologia FLY, porta i suoi insegnamenti nel mondo esportivo.
TGM Esports: Grazie per la disponibilità. In primis vogliamo sapere una sua opinione sul caso Herzog.
Lucchetta: Ho seguito la vicenda leggendo diversi articoli. Da quello che sono riuscito a ricostruire mi sembra di capire che alla base ci sia la volontà di trasmettere al figlio una propria passione, il che non sarebbe neanche poi così negativo, se non fosse il “come” ciò si manifesta. Per stessa ammissione del padre, lui ha voluto “costruire” la carriera del figlio prima ancora che questi dimostrasse attitudini o talento.
TGM: Seppur mediatico, tale caso rientra nella casistica di quei in cui i genitori impongono le proprie scelte ai figli.
Lucchetta: Come ho detto prima, il “costruire” è l’elemento negativo, perché di partenza viene meno la libera scelta del ragazzo (lasciamo perdere il fatto che qualsiasi teenager non direbbe di no a un’opportunità simile…).
Inoltre consideriamo quanto creare una carriera nel professionismo esportivo sia cosa difficile, molto più che nel settore sportivo tradizionale. Bisogna trovare un punto d’equilibrio: giocare competitivo all’inizio può e deve essere solo puro divertimento. Puoi trasformarlo in un lavoro solo e soltanto quando stai già vincendo eventi importanti con montepremi significativi, altrimenti non ha proprio senso.
In ogni caso devi sempre essere cosciente che è un settore dove tutto cambia molto in fretta ed è impossibile prevedere in che modo. E stiamo parlando di un ragazzino di 12 anni. Dodici…
TGM: Eppure in molti si sono focalizzati solo sul fatto che il ragazzo abbia abbandonato la scuola.
Lucchetta: Normalmente sono contrario a una cosa del genere. Certo, non possiamo dimenticarci come ciò avvenga da anni anche nel settore sportivo, quando si scoprono dei talenti. Perciò il nostro attuale contesto mi fa dire “no, è sbagliato”, ma magari fra qualche anno vedremo queste soluzioni in maniera differente. Se ci fosse un talento VERO, un panorama esportivo stabile e si trovassero altre forme valide di formazione, allora forse ci si potrebbe ragionare, ma non oggi.
Inoltre, nel caso specifico ci dobbiamo porre una domanda: cosa potrebbe succedere se il figlio si stufasse (magari per un burnout causato da tutto questo stress mediatico) e decidesse di smettere di giocare? Avrà altre opzioni? Il padre avrà l’elasticità mentale di comprendere la nuova situazione e supporterà il figlio nella sua nuova scelta?
TGM: Poniamo che un caso del genere venga posto alla tua attenzione. Quale sarebbe il tuo consiglio?
Lucchetta: “Hai mai ragionato attentamente su dove inizi la tua decisione e dove invece quella di tuo figlio?”. Questa è la prima domanda che farei al padre.
Ci dimentichiamo che un fattore importante per far emergere un talento è prima di tutto la passione che ci regala il divertimento: senza di quello posso sicuramente creare un professionista, ma di fatto è un automa, privo di emozioni e destinato a stancarsi.
Magari non sarà il caso di questo ragazzo, glielo auguro, ma nello sport non sono rari i casi di atleti, ancora minorenni, completamente “svuotati” dalla loro disciplina. Hanno iniziato prestissimo perché erano bravi, non hanno avuto altro se non quello, e ora alla soglia della maggiore età ne sono nauseati. Di solito mollano.
TGM: Che consiglio daresti invece a un ragazzo che vuole intraprendere tale carriera?
Lucchetta: : Non farlo se la tua idea è quella di diventare un professionista pagato. Gli esport sono un settore nuovo e avvincente, ma realisticamente credere che saranno il mio “Piano A” è davvero pericoloso in questo momento, soprattutto pensando di esserlo in Italia dove i team e gli organiser stanno lavorando sodo, mettendoci del loro e di tasca loro, per organizzare eventi paragonabili a quelli esteri.
Inoltre, ogni anno i player aumentano e anche la fascia d’età d’ingresso si abbassa, sia da noi che all’estero, facendo crescere esponenzialmente il numero dei “rivali”. Quello che tanti aspiranti pro stanno dimenticando è che competere nel gaming vuol dire innanzitutto giocare, mettendoci passione e divertimento nel farlo. Solo da quel presupposto può emergere il potenziale, non il contrario.
Vinci una partita? Sei contento, perfetto. Perdi un match, puoi esserne dispiaciuto, certo, ma poi prendila con filosofia, mica è facile con tutti questi player così bravi. Magari il tuo talento è un altro: sai intrattenere, o scopri di essere un bravo coach, o analyst… O magari sei bravo a fare altro, extra esport!
Ti faccio un esempio pratico: Pow3r. Nel tempo si è evoluto, non è mai rimasto fermo e non ha aspettato che qualcuno gli dicesse “sì, sei un pro” ma ha continuato a sperimentare, in prima persona, strade differenti ottenendo riscontro favorevole e professionalizzando la sua passione. Una libera scelta che probabilmente è venuta a mancare a Herzog.