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Portare l’esport al prossimo livello: l’importanza del Fair Play | Editoriale

Del significato della parola esport e del suo strano ma affascinante rapporto con lo sport classico abbiamo già parlato approfonditamente. Una volta arrivati alla conclusione che gli sport elettronici stiano tentando di divincolarsi dalle inevitabili associazioni alla loro controparte fisica, ci ritroviamo di fronte a un mondo di possibili domande, ognuna delle quali crea un numero altrettanto elevato di possibili soluzioni. Se il confine fra esport e sport è così sottile, cosa differenzia davvero i due? Come ha fatto lo sport a diventare nel tempo un fenomeno massa così esteso ed accettato da esser considerato uno dei pilastri della vita culturale? Cosa ha da insegnare lo sport alla sua controparte digitale? Ed è sfoggiando il sorrisetto beffardo riservato all’uomo che ha appena scoperto l’acqua calda che affermo la mia soluzione universale: il fair play.

Fra tutti gli aspetti positivi di cui lo sport si può vantare, è indiscutibilmente il fair play il primo piolo della scala che permette al gioco di elevarsi a qualcosa di più di una semplice attività fisica. L’insieme di comportamenti e pratiche che viene descritto come gioco leale e signorile durante una competizione è la manifestazione dei tutti quei valori positivi che la società moderna tenta di trasmettere. Il giocatore di calcio che si comporta in maniera esemplare durante una partita difficile è in grado di influire sul comportamento degli spettatori più efficacemente di qualsiasi pubblicità progresso si possa trasmettere. Probabilmente il più grande traguardo dello sport moderno è il fatto che il fair play venga considerato oggigiorno una prerogativa immancabile.

GL HF, GG WP

Come avrete probabilmente supposto, personalmente non ritengo che l’esport al momento si trovi in una situazione così rosea. Le comunità dei giochi più competitivi sono spesso considerate un letamaio di negatività, un buco nero che trascina al suo interno tutte le povere anime che si avventurano nelle sue vicinanze. Gli episodi di giocatori, anche di alto livello, che commettono atteggiamenti antisportivi non mancano di certo nello sport tradizionale, ma non si può negare il fatto che la breve vita delle competizioni videoludiche sia stata segnata da episodi al limite dell’illegalità.

Nonostante i più sentiti sforzi delle case produttrici di instillare nei giocatori un senso di unità, e favorire la diffusione di atteggiamenti positivi – come quello di augurare “Buona Fortuna e Buon Divertimento” a inizio incontro, nonché la virtuale stretta di mano a fine match del “Buona Partita, Ben Giocato” – sempre più spesso, quando si compete online, si ha l’impressione che sia andato perduto il rispetto dovuto non solo al team avversario, ma anche quello per i nostri stessi alleati.

Da cosa nasce dunque la carenza di fair play nel gioco elettronico? E cosa si può fare per migliorare la situazione?

Sul web nessuno può sentirti urlare

Trovare la principale causa scatenante all’esercito di maleducati che sembra invadere la rete sarebbe un’impresa ai limiti dell’impossibile tanto quanto inutile. Semplificando rischiamo di ridurre un problema complesso, che affonda probabilmente le sue radici nei problemi relazionali scaturiti da una costante pressione sociale che sembra spingerti ad usare chiunque si ha attorno come trampolino di lancio verso il successo, e non mi sento la persona più qualificata per affrontare l’argomento. Per il bene del nostro discorso comunque, tenteremo di mettere in evidenza due delle cause principali del senso di legittimazione di cui il classico bulletto digitale si sente investito.

L’anonimato offerto dalla rete è da sempre stata una benedizione e un cruccio. Da una parte la libertà che l’approccio online offre agli utenti permette di sorvolare alcune barriere che nella vita reale possono ostacolare il dialogo: tutta la serie di pregiudizi che inevitabilmente l’aspetto dei due interlocutori crea durante una conversazione faccia a faccia diventa ininfluente, o quantomeno molto meno marcato, e l’uso di testo nel contesto del gioco (di gran lunga uno dei metodi più diffusi di comunicazione fra estranei) consente di celare praticamente qualsiasi informazione personale non si trovi gradevole divulgare.

fair play

E se da un lato questo tipo di libertà investe come un’ondata di aria fresca, la possibilità di creare un personaggio fittizio per interagire con gli altri permette a chiunque di nascondersi dietro un muro insormontabile di anonimato. Nel caso in cui sia carente il senso di responsabilità personale, questa parete fornisce al colpevole di soprusi una difesa ineguagliabile. Ciò scatena un senso di sicurezza nel maleducato di turno, che sente di non poter esser punito per l’atteggiamento negativo di cui si macchia e spinge a comportamenti sempre più estremi. Al contempo si crea nelle varie comunità un senso di impotenza diffuso, accentuato dai tempi (non sempre ristretti) necessari a punire la condotta antisportiva.

Più di un ammasso di pixel

Interagire con qualcun altro attraverso un medium come quello del videogioco non solo non permette lo sviluppo della naturale empatia che si crea nei rapporti più diretti (che spesso previene il degenerare di situazioni sul nascere) ma permette di deumanizzare l’altro, trasformandolo nel personaggio o nel ruolo che ricopre all’interno del gioco.

Per capirci, una volta che vediamo all’interno di LoL il nostro carry come “Ashe”, il resto delle informazioni che abbiamo riguardo la persona passano in secondo piano; non stiamo più parlando di “Summoner X” ma parliamo delle azioni compiute da “Ashe” e ci sentiamo legittimati non solo a giudicare l’operato del summoner in base alle azioni del suo campione, ma veniamo infastiditi dai suoi errori. Giudicando noi stessi in base alle nostre più buone intenzioni e gli altri in base alle loro azioni, creiamo tra noi e loro un divario insanabile. Una volta che percepiamo i nostri alleati come incapaci di assolvere i compiti che da loro ci aspettiamo, ci sentiamo legittimati a trattarli quasi come Bot.

Allo stesso tempo il nostro antagonista non diventa altro che la manifestazione del campione che abbiamo contro. La rabbia scatenata dalla nostra cattiva prestazione si riversa tanto sul personaggio nemico quanto sull’avversario in carne ed ossa. È così che imbeviamo i nostri nemici delle qualità negative che tanto disprezziamo nei personaggi contro cui abbiamo difficoltà, e ci sentiamo legittimati a offendere indiscriminatamente l’uno e l’altro.

Questo non è un concetto del tutto nuovo nemmeno allo sport: la presenza stessa delle casacche è spesso quanto basta per creare un ambiente che potremmo definire ostile piuttosto che competitivo. La soluzione al problema comporta un costante sforzo mentale atto a vedere il team non come una schiera di nemici ma piuttosto un insieme di persone con in testa il nostro stesso obbiettivo: la vittoria. Il processo è solitamente facilitato da qualcuno a tutti noi noto; una figura che nell’esport è tanto assente quanto sottovalutata: l’arbitro.

Fair play

Nel prossimo editoriale ci addentreremo quindi in una realtà parallela idilliaca in cui proveremo a risolvere i problemi di tossicità del più popolare esport del momento, introducendo la figura dell’arbitro nelle partite classificate. Non perdetevelo!

 

Altre info su Gian Filippo Saba

Avido giocatore di qualsiasi genere possibile. Alto 1 metro e 80, pesante quanto un ramoscello d'ulivo, è fortemente convinto che la bravura ai videogames sia direttamente collegata al proprio indice di massa corporea. Nonostante ciò pensa ugualmente di esser il Prescelto in virtù di un sogno rivelatore avuto alla tenera età di 6 anni, in cui Crash Bandicoot gli rivelò i segreti del mondo videoludico.

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